Una nuova Europa inizia dalla rivoluzione nel Maghreb e nel Nord Africa. Così avevamo concluso il meeting di Parigi lo scorso febbraio, dando avvio al processo di costituzione della rete transnazionale Knowledge Liberation Front. Ora, è per questo che il 13 maggio andremo in Tunisia, insieme a una delegazione del network NoBorder: per imparare. Per imparare, innanzitutto, che cosa significa trasformare una situazione rivoluzionaria in processo rivoluzionario.
Vi è, infatti, una definizione classica della situazione rivoluzionaria che oggi potremmo riformulare in questi termini: gli studenti, i precari, i migranti, i lavoratori impoveriti dalla crisi capitalistica non vogliono più vivere come in passato; i padroni e i tiranni non possono più vivere come in passato, perché non glielo permettono le moltitudini globali che si stanno sollevando. Ma quando una situazione rivoluzionaria diventa movimento rivoluzionario? Lo spiega El Général, la voce dell’insorgenza tunisina. Anzi, se Chuck D dei Public Enemy sosteneva che il rap è la Cnn degli afroamericani, potremmo oggi dire che El Général è l’Al Jazeera delle moltitudini arabe. E così – di fronte alla composizione metropolitana e transnazionale che affolla il Cantiere di Milano, dove alla vigilia del 25 aprile è stato lanciato il “Liberation Without Borders Tour” – il rapper tunisino spiega che l’insurrezione è cominciata quando le persone hanno smesso di avere paura. E smettere di avere paura vuol dire cominciare a fare paura. Il rap è dunque la cifra di quell’esplosione di libertà e creatività collettiva che accompagna l’insorgenza dei lavoratori cognitivi.
Andare in Tunisia significa allora entrare in un laboratorio, straordinariamente complesso, ovviamente contraddittorio e certamente di avanguardia, da studiare e con cui relazionarsi senza mitologie estetizzanti o supponenza tardo coloniale. Un laboratorio in cui la rete è compiutamente divenuta pratica, strumento e forma organizzativa delle lotte e, almeno in embrione, di una nuova società. Un laboratorio in cui il proletariato cognitivo – giovane, altamente scolarizzato e precario o disoccupato, la cui potenza produttiva va di pari passo con il suo impoverimento, la cui mobilità è bloccata dagli accordi tra i tiranni europei e i loro colleghi nordafricani finalmente in rotta – è divenuto movimento insurrezionale. Un laboratorio, quindi, che ha riportato all’ordine del giorno il tema della rivoluzione. Tanti, troppi pensavano trionfanti di averlo relegato tra le anticaglie museali, ovvero nei tranquillizzanti non-luoghi dell’utopia; perfino in vari ambiti di movimento era stato messo al bando, trattato – al pari del termine comunismo - alla stregua di una provocazione da nostalgici. E ora invece sull’altra sponda dell’Atlantico insurrezione e rivoluzione irrompono nel cuore del capitalismo cognitivo e della sua crisi permanente, non ferri vecchi e arrugginiti, ma pratiche e processi da ripensare qui e ora, definitivamente slegati dallo Stato-nazione, immanenti alla composizione di classe moltitudinaria e alla sua potenza costituente. “Io mi chiamo El Général perché fin da piccolo pensavo alla rivoluzione”. Ed è per questo che odia una guerra, quella “umanitaria”, che proprio contro il processo rivoluzionario viene condotta. Un laboratorio, last but not least, in cui si possono misurare i rapporti di forza e il peso della vittoria.
Ma attenzione, ci avvertono compagni e attivisti tunisini: cacciare Ben Ali per noi è stato solo il primo passo di un processo, niente affatto il suo compimento. Lo scontro è molto duro con chi cerca di bloccare il processo rivoluzionario, lasciando così l’insurrezione orfana della rivoluzione. Perché cacciare un tiranno non significa sconfiggere la tirannia e il sistema che la produce. Questo è il nodo che le lotte pongono, ed è a questa altezza – non nella mera solidarietà, talora ambigua quando si concretizza con soggetti che in Tunisia si trovano dall’altra parte della barricata - che abbiamo bisogno di unire le due sponde del Mediterraneo. Avremmo bisogno di una “carovana”, certo, ma verso l’Europa, per accompagnare le pratiche di libertà inscritte nei corpi dei migranti e nelle parole dell’insorgenza araba, che ora sta travolgendo anche il Marocco e la Siria. Non capirlo significa fare confusione, e di turisti in Tunisia ce ne sono fin troppi. Il 13 maggio a Tunisi proveremo invece a capire, capire innanzitutto come organizzarci insieme per mettere in comune le nostre lotte e fare programma transnazionale. Perché solo così potremo riempire questo mare non di intenti misericordiosi e umanitari, ma di una libertà e un’uguaglianza comuni. Il nostro 1789, questa volta, forse è cominciato in Tunisia.
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